Nei giorni scorsi la Commissione Giustizia del Senato ha dato il via libera al disegno di legge sull’equo compenso dei professionisti già approvata dalla Camera dei Deputati. Manca così soltanto l’ultimo tassello – l’approvazione da parte dell’aula del Senato – affinché il testo divenga legge dello Stato.
Se il rafforzamento dell’equo compenso, principio già contenuto in una legge del 2017, può apparentemente sembrare una buona notizia, la lettura dell’articolato del provvedimento mostra una realtà ben diversa, realtà che si può sinteticamente riassumere nel fatto che per i Dentisti sarà tecnicamente impossibile ricorrere a tale legge per ottenere un compenso minimo proporzionato alla qualità della prestazione effettuata.
Mi rendo conto che un giudizio siffatto può sembrare tranchant, ma per accertarsene è sufficiente fermarsi al primo comma dell’articolo 2 della legge, che ne definisce il campo di applicazione circoscrivendolo ai soli rapporti ove il committente/cliente sia una impresa bancaria o assicurativa o comunque una impresa che nell’anno precedente al conferimento dell’incarico abbia occupato alle proprie dipendenze più di cinquanta lavoratori o conseguito ricavi superiori a 10 milioni di euro. Vengono quindi esclusi tutti i rapporti in cui il cliente non è una impresa, tagliando fuori le professioni, come quella del Dentista, in cui l’utente tipo è rappresentato da una persona fisica.
Tuttavia, occorre sottolineare come la legge potrebbe rimanere efficace in tutte quelle fattispecie in cui il professionista svolge la propria prestazione nell’ambito di strutture gestite da imprese commerciali: qualora infatti tali imprese rispondano ai requisiti dimensionali individuati dalla suddetta norma (aver impiegato più di 50 lavoratori o aver realizzato ricavi superiori a 10 milioni di euro nell’anno precedente), il professionista potrebbe reclamare l’equo compenso avvalendosi della nuova disciplina. Cosa potrebbe succedere in tali casi? In che modo il professionista potrebbe ottenere l’equo compenso? Posto che il compenso “equo” viene individuato nei parametri fissati da appositi decreti ministeriali, qualora il professionista percepisca corrispettivi inferiori a tale soglia, egli potrà – ai sensi dell’articolo 3, comma 5 della legge – impugnare davanti al tribunale competente il contratto o la convenzione che regola i rapporti con il committente. Peccato, però, che il professionista che “denunciasse” il contratto sotto soglia sarebbe passibile – in virtù di quanto disposto dal successivo comma 5 dell’articolo 5 della legge – di una sanzione disciplinare automatica. In altre parole, quindi, il diritto all’equo compenso passa necessariamente dall’autodenuncia, divenendo di fatto inesigibile, grazie a un testo di legge che invece di sanzionare il committente inadempiente colpisce – con un rovesciamento delle responsabilità incomprensibile in un provvedimento che dovrebbe tutelarlo – proprio il professionista sottopagato.
Rispetto alle aspettative dei professionisti – e in particolare dei Dentisti – si tratta di una legge assai deludente: l’ennesima occasione mancata nel definire un principio che se da un lato sancirebbe il diritto del professionista a percepire una remunerazione corrispondente alla qualità della prestazione eseguita, dall’altro rafforzerebbe il patto fiduciario che è alla base del rapporto tra libero professionista e cliente e che trova il proprio complemento nelle norme deontologiche e nella vigilanza degli ordini professionali, proprio a tutela dell’utenza.
Insomma, più che l’agognato diritto all’equo compenso, la legge sembra l’ennesima declinazione della massima magistralmente espressa da Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo capolavoro, Il gattopardo: “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.