Negli ultimi anni il welfare aziendale ha riscosso un successo via via crescente per effetto della combinazione di due fattori di assoluta rilevanza:
- in primo luogo la natura dello strumento, particolarmente adatto al miglioramento del clima aziendale;
- in secondo luogo la continua implementazione di specifici vantaggi fiscali, attribuiti sia ai datori di lavoro che lo mettono in atto sia ai lavoratori che ne beneficiano.
In estrema sintesi si tratta di un complesso di utilità attribuite dai datori di lavoro ai propri dipendenti sotto una pluralità di forme, tra le quali, ad esempio, l’assegnazione di buoni spesa, il sostegno alle spese di istruzione dei figli, l’accesso a servizi sanitari, ecc.. Tali “politiche”, come accennato, godono di un trattamento fiscale di assoluto favore, considerando che, in via generale ed entro i limiti fissati dalla legge, per i datori di lavoro il valore dei beni e servizi erogati ai dipendenti viene considerato deducibile ai fini delle imposte sui redditi e, contestualmente, esso non costituisce reddito in capo ai lavoratori che ne
beneficiano.
In altre parole – utilizzando una sommaria “semplificazione” – potremmo affermare che mentre una ordinaria componente della retribuzione sconta il carico fiscale e previdenziale previsto dalla legge, il welfare aziendale gode di una “neutralità” assoluta, con la conseguenza che il lavoratore beneficerà di una utilità netta di ammontare pari al valore lordo. Per ovvie ragioni, quindi, il trattamento fiscale agevolato del welfare aziendale sconta una serie di limitazioni, essenzialmente riferibili a due fattispecie:
- una di natura qualitativa, riconducibile alle tipologie di strumenti inquadrabili nel welfare aziendale, specificamente indicati dalla legge;
- una di natura quantitativa, afferente agli specifici massimali fissati dalla normativa fiscale.
Tale disciplina è stata oggetto di importanti modifiche prima nel corso dell’emergenza sanitaria Covid-19, poi nell’ambito dei provvedimenti volti a contrastare gli effetti dell’aumento dell’inflazione. In particolare gli interventi si sono concentrati sull’articolo 51, comma 3 del TUIR che contempla la non imponibilità dei fringe benefit ricevuti dai lavoratori dipendenti nel limite di 258,23 euro annui. Il suddetto valore, che era stato innalzato a 516,46 euro per gli anni 2020 e 2021, viene ulteriormente incrementato a 3mila euro per il 2022 dal decreto Aiuti Quater (DL n. 176/2022, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 18 novembre).
Inoltre l’articolo 12 del decreto Aiuti Bis (DL n. 115/2022) ha ampliato, sempre con riferimento all’anno 2022, il novero degli strumenti inquadrabili tra i suddetti “benefit”, includendo anche le somme rimborsate o erogate ai dipendenti a titolo di pagamento delle utenze domestiche, del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale.
Tali misure, peraltro, sono state oggetto dei chiarimenti forniti dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 35/e del 4 novembre 2022. In merito è senz’altro utile fare riferimento a tre specifici passaggi del documento di prassi:
- il primo dove l’Agenzia conferma che il superamento del limite di 3mila euro comporta l’assoggettamento a tassazione dell’intero importo percepito;
- il secondo dove viene precisato che il bonus carburante (200 euro) previsto dall’articolo 2 del DL n. 21/2022 non rientra nel computo dei 3mila euro;
- il terzo dove viene ricordato che sarà possibile erogare i suddetti benefit con riferimento all’anno 2022 fino al 12 gennaio 2023.