Racchiudere in poche battute l’analisi di un tema articolato quale la riforma fiscale è esercizio estremamente complesso. Mi limiterò, quindi, riservandomi ulteriori e specifici approfondimenti sugli argomenti che risulteranno più interessanti, a esporre qualche idea di revisione dell’attuale modello IRPEF, facendo riferimento alle ipotesi in campo.
Gli obiettivi di una buona riforma dovrebbero essere molteplici: semplificazione, ricerca della migliore equità orizzontale e verticale e, nei limiti dei margini di finanza pubblica, riduzione del carico impositivo. Saperli soddisfare dipenderà da una pluralità di fattori, tra i quali la capacità della politica di saper cogliere e interpretare le complessità della società odierna, ma non potrà prescindere dall’analisi delle criticità del sistema.
1. In primo luogo, occorrerà valutare se logiche di semplificazione e compliance siano ancora integralmente compatibili con la proliferazione dei vari regimi sostitutivi (cedolare secca, forfettario, premi di produttività, ecc.) che hanno progressivamente assorbito base imponibile IRPEF, determinando frequentemente effetti distorsivi sul mercato.
2. Una buona riforma, poi, dovrà garantire il rispetto dell’equità orizzontale: i bonus a favore dei lavoratori dipendenti varati negli ultimi anni hanno determinato una sostanziale scissione dell’imposta (soprattutto sui redditi medio bassi), con un’IRPEF sul lavoro dipendente che assume valori assai inferiori a quella calcolata sulle altre tipologie di reddito. Per tali ragioni occorrerà riequilibrare il modello attraverso l’incremento delle detrazioni riservate a lavoratori autonomi e atipici.
3. Il terzo passaggio dovrà ricondurre a ripristinare l’equità verticale dell’IRPEF, modello che oggi penalizza soprattutto la classe media. Tant’è che, ad esempio, rispetto al modello tedesco – opzione assai gettonata tra le proposte di riforma in campo – l’incidenza dell’IRPEF è più tenue sui redditi bassi e ben più gravosa su quelli medi. In tal senso, quindi, più che importare un modello dall’estero, potrebbe essere più semplice e vantaggioso limitarsi ad abbassare le aliquote del terzo e del quarto scaglione, eventualmente introducendone un sesto.
4. Contestualmente, inoltre, andrebbe posto un argine allo “scivolamento” del peso impositivo verso le addizionali regionali e comunali: nate alla fine degli anni ’90 (ricordate il dibattito sull’autonomia e sul federalismo fiscale?), nel corso del tempo hanno assunto sempre più rilevanza, generando un gettito che rappresenta ormai circa il 10% dell’IRPEF complessiva.
5. Occhio, infine, alle cosiddette semplificazioni: il dibattito mainstream le identifica, superficialmente, nel mero taglio del numero degli scaglioni e della quantità di detrazioni, dimenticando che le maggiori complessità ineriscono la determinazione delle basi imponibili e, soprattutto, il numero e la farraginosità degli adempimenti correlati. Più che ridurre le detrazioni (che altro non è che un modo gentile di dire “aumentiamo le tasse”), sarebbe quindi utile tagliare gli adempimenti inutili, che generano costi sia per il contribuente che per l’amministrazione finanziaria.
Nelle prossime settimane, con il varo della legge di bilancio 2021 e, soprattutto, della delega fiscale, potremo misurare le nostre proposte con l’idea del Governo, augurandoci che i diritti del contribuente siano finalmente messi al centro della azione riformatrice.
Andrea Dili – Dottore Commercialista